Le centrali a carbone di Brindisi e Civitavecchia sembrano viaggiare su un binario comune, sospese tra le dichiarazioni politiche sulla sicurezza energetica nazionale e l’assenza di atti amministrativi che ne definiscano davvero il futuro.
A legarle è soprattutto la posizione espressa dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin:
«Finché sono ministro non do l’ordine di smantellamento delle centrali a carbone di Brindisi e Civitavecchia. Qualsiasi incidente su una pipeline rischia di mettere l’Italia al buio».
Parole che riconoscono il ruolo strategico di questi impianti come “assicurazione” del sistema elettrico, ma che si scontrano con una realtà fatta di scadenze, piani energetici e scelte industriali già avviate.
Il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) prevede infatti l’uscita dal carbone entro il 31 dicembre, data che sia per Brindisi che per Civitavecchia, segna lo stop alla produzione se non intervengono provvedimenti ufficiali di proroga.
Il caso della centrale Enel “Federico II” di Cerano è emblematico e offre spunti validi anche per Civitavecchia.
Nonostante le aperture politiche a un prolungamento dell’attività, magari in riserva fredda fino al 2038, mancano i decreti attuativi, il rinnovo dell’Autorizzazione integrata ambientale e le decisioni sulle concessioni portuali necessarie alla movimentazione del carbone.
In assenza di questi atti, Enel si orienta verso lo stop, perché tenere una centrale “in bilico” comporta costi elevatissimi e difficilmente sostenibili.
Accendere e spegnere un impianto di tali dimensioni non è un’operazione neutra: servono manutenzioni continue, personale qualificato, approvvigionamenti e autorizzazioni ambientali.
Tutto questo ha un prezzo. Le stime parlano di centinaia di milioni di euro l’anno per mantenere Brindisi e Civitavecchia in stand-by, costi che qualcuno dovrebbe coprire.
Le ipotesi sul tavolo – compensazioni a Enel o addirittura una nazionalizzazione temporanea – aprono scenari complessi, con possibili ricadute sulle finanze pubbliche o sulle bollette di famiglie e imprese.
L’incertezza, intanto, produce effetti concreti e immediati sui territori.
A Brindisi come a Civitavecchia, lavoratori diretti, indotto e servizi collegati vivono una fase di precarietà: trasferimenti, esuberi, riconversioni ancora da definire.
Il ministro Pichetto Fratin richiama giustamente la necessità di una decarbonizzazione che sia un “brand” della produzione nazionale,
avvertendo però del rischio di distruggere pezzi del sistema produttivo italiano per poi spostare le emissioni altrove, nel Sud del Mediterraneo.
È una riflessione che vale tanto per Brindisi quanto per Civitavecchia: la transizione energetica non può essere solo annunciata, ma governata con scelte chiare, tempi certi e strumenti concreti.
Finché questo non accadrà, le due città resteranno legate dallo stesso destino: centrali formalmente al capolinea, ma ancora considerate indispensabili,
territori in attesa di risposte e una transizione energetica che rischia di rimanere più uno slogan che una politica compiuta.
C. O.