Amazzonia. Si chiama spettacolo, ma si legge “realizzare la realtà delle cose attraverso una finzione scenica”

Foto Massimo Lrs

Forse ero rimasto solo io a non aver ancora visto (…o vissuto?) l’opera di Enrico Maria Falconi “Amazzonia”. In scena ormai da tempo, un modo alternativo di fare teatro, oppure un modo alternativo di raccontare la verità.

Tutto parte dalla foresta brasiliana, icona di un disastro ambientale per troppo tempo tenuto nascosto, per il quale il mondo ha fatto finta di non vedere. Gli attori sul palco lavorano molto di mimica, si passa dalla serenità degli indigeni ignari di quello che gli sarebbe accaduto, all’espressione di delusione dopo l’arrivo dei “salvatori”. Sono molti sul palco, attori, ma anche ballerini ed acrobati. Ognuno ha un senso, come ormai il maestro Falconi ci ha insegnato, nulla è per caso. I tempi teatrali a volte non vengono rispettati, sono appositamente rallentati. Si vive uno slow-motion utile alla causa, questo spettacolo deve far pensare. Deve lasciare un segno, e ci riesce.

Poi l’Amazzonia si trasforma in una città della Provincia Italiana, nella fattispecie Civitavecchia, e ti accorgi che anche dopo secoli poco è cambiato; il popolo semplice ed ingenuo abbindolato dalle promesse del politico di turno. Corsi e ricorsi storici, e il mondo va avanti… oppure torna indietro?

Il Teatro va vissuto, sempre e comunque, dietro ad ogni spettacolo c’è passione, fatica, impegno. In questo caso ci sono anche tanti messaggi che il pubblico, grazie ad una rappresentazione di livello, recepisce e alla fine…. applaude.

Corrado Orfini

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