(Henri Cartier-Bresson)
Fare una fotografia vuol dire allineare la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere.Lo sa bene Enrico Paravani, fotografo di CivitavecchiaAMP che a 50 anni si è rimesso sui libri e ha deciso di fare della sua grande passione il suo lavoro.
“Mi sono rimesso a studiare a 50 anni. Tramite social già frequentavo fotografi di un certo spessore; non copiavo: seguivo. Da lì ho trovato il mio stile”.
Figlio di falegname, ha seguito le orme del padre, senza mai smettere però di portare con sé la sua amata macchina fotografica.
Poi la chiusura dell’attività di famiglia, che ha portato uno stravolgimento nella vita di Enrico: era ora di ricominciare e, come ci ha confessato lui stesso, il desiderio di fotografare era più forte di tutto il resto… sebbene fosse un rischio.
“Quando ero un falegname si diceva che ‘l’arte la rubi con gli occhi‘ ed è stato utile per me per trovare la mia strada.
In ogni settore c’è chi è più specializzato in qualcosa e meno su altro. La vita stessa è fatta di passioni e talenti: io ho seguito il mio istinto e mi sono rimesso in gioco grazie all’arte della fotografia”, ci ha confessato.
“Io vengo dall’analogico, per cui ancora sviluppo, avendo la macchina apposita. La qualità del rullino poi è totalmente diversa.
Con il rullino la foto la puoi vedere solo alla fine. Con il digitale puoi perfezionare il tiro in itinere e questo è un altro aspetto interessante da valutare quando si parla di stile fotografico.
Io mi sono allenato molto con lo sport, il rugby soprattutto, tra gli sport più fotogenici che esistano: c’è sudore, sangue, passione.
Cercavo di scattare le emozioni dei giocatori. Alcune mie foto sono finite anche all’estero in riviste specializzate”.
“Sono sempre stato appassionato a tematiche sociali. Tutti dovremmo vivere con la stessa speranza di vita.
La fotografia mi ha permesso di raccontare senza filtri, senza opinione: scatti e ognuno si può fare la propria idea in merito a ciò che vede.
Attraverso lo studio di grandi fotografi che hanno cambiato il mondo (come Salgado, ad esempio), ho compreso che con un frammento si possono raccontare storie in maniera diretta.
Spesso mi è capitato di scattare foto che abbiano dato “fastidio”: ormai siamo abituati a non guardare, è più facile, mentre tutta un’altra cosa è accettare realtà anche scomode”.
“Sì. C’è stato un periodo in cui andavo a fotografare la centrale che buttava fuori fumo giallo… e presi tante critiche, perché ciò che mostravo non era certamente “bello”.
L’immagine serve a questo: a metterti di fronte ad una realtà. Noi non la vediamo spesso, la realtà, perché ormai siamo abituati a camminare con la testa bassa, sui cellulari.
Ci scappano tante cose durante la giornata.
Ad esempio, una volta feci delle foto alle vie di Civitavecchia mentre ero in bici. Presi una via contromano, e iniziai a scattare delle foto. Quando le postai, molti mi chiesero che via fosse, eppure era una delle più trafficate.
Una volta scattai delle foto di via Buonarroti all’alba, da terra… non la riconoscevano, perché non siamo più abituati a guardare cosa ci sia intorno a noi, camminiamo con i paraocchi e ci perdiamo tanta bellezza, così come tante brutture del mondo”.
“Personalmente, scatto sempre quello che vedo. Non ho neanche Photoshop, semplicemente sistemo un po’ colori e luci.
Cerco di trovare la storia dietro alla persona: ognuno di noi ne ha una. Anche il turista che passa per strada. Ho sempre con me la macchina fotografica: quando passeggio, quando sono in auto, in bici.
Cerco di cogliere l’attimo di realtà che mi si figura davanti e di mostrarlo”.
“L’abuso ci fa perdere la memoria. La fotografia non deve trasformarsi in un abuso di accumulazione di ricordi, poiché si rischia di dimenticarsi sia del momento vissuto che del momento dello scatto.
Le foto vanno stampate! È meglio concentrarsi su pochi ma importanti scatti, quando si sceglie di fare questo lavoro con lo scopo di mandare un messaggio, qualunque esso sia.
Oggi esiste il selfie, che non è altro che un auto celebrazione. Io preferisco raccontare ciò che mi sta attorno, anziché mostrare me stesso”.
“Io non sono mai stato un esteta, ma ho capito che la realtà non piace a nessuno, c’è sempre qualcosa che non ci va bene.
Io ho iniziato con lo sport, poi con il teatro, mi è capitato anche di fotografare per eventi di amici, per lavoro.
Insomma, ho il mio bagaglio di esperienze, ma penso che la fotografia in generale sia un’arte per il semplice potere che ha di lasciare un segno, un’emozione in chi vi si imbatte.
E, ripeto: ci sono fotografi che hanno cambiato il mondo con le loro opere, lasciando un segno indelebile.
Questo è il potere della fotografia”.
Un potere non indifferente, quello della fotografia: potere di illudere, di colpire, di emozionare. Potere di stupire, di divertire, di solidificare un momento, un ricordo, un pezzo di vita.
Nicole Ceccucci
Era ora che si parlasse del più grande fotografo di Civitavecchia