«E se Artemide vuole prendere la mia vita, dovrei oppormi a una dea, io che sono mortale?»
Protagonisti insieme a Tidona: ALESSANDRA FALLUCCHI (Clitemnestra), PAOLO LORIMER (Menelao),
ROBERTO TURCHETTA (Achille), CAROLINA VECCHIA (Ifigenia). Coro: Lorenza Molina, Elisa Galasso,
Carlotta De Cesaris, Chiara Sciá.
Andrea Tidona, attore siciliano tra i migliori interpreti del teatro e del cinema italiano, famoso per aver
interpretato il giudice Giovanni Falcone nella serie TV Mediaset “Il capo dei capi” e per aver vinto il Nastro
d’argento nel 2004 per il film “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, in questo spettacolo
interpreta il ruolo di Agamennone.
Ultima delle tragedie euripidee, rappresentata postuma nel 399 a.C. in un periodo di profonda crisi del modello della pòlis greca – di lì a poco ci sarebbe stata la disfatta di Atene contro Sparta e la fine di un modello politico e democratico; Ifigenia in Aulide è una tragedia ambigua in cui, come nell’Alcesti, si mette in scena un sacrificio e una morte che poi si riveleranno apparenti.
Gli dèi di fatto non ci sono più, il tragico sembra franare: gli eroi in Euripide sono solo uomini lacerati,
deboli, mutevoli che agiscono in base ai loro desideri e alle loro paure, lontani anni luce sia dal modello omerico che da quello eschileo.
A dominare è la ragione strumentale e il discorso del potere. Emblematico, in questo senso, è il trattamento che Euripide fa di Achille, eroe demitizzato, quasi un personaggio comico, incapace di corrispondere al suo stesso mito originario; che non agisce, evita lo scontro con i soldati facendosi paladino, alla maniera dei sofisti, della persuasione e del dialogo, pur ripetendo – quasi volesse rincorrere quell’Achille omerico che Euripide non gli permette di essere – che lui salverà Ifigenia.
La crisi del sacro in Euripide emerge anche dalla figura dell’indovino, qui considerato dai protagonisti alla stregua di un volgare ciarlatano, di un imbonitore funzionale a tenere a bada la massa. Nella costruzione dello spettacolo, ho voluto seguire il trattamento euripideo del mito cercando di far emergere la violenza che abita il testo e le contraddizioni di personaggi che Euripide presenta come “umani troppo umani”; la loro inadeguatezza al mito, l’abisso del privato al di sotto del mascheramento della parola pubblica, l’ambizione, la doppiezza.
Tutto è ambiguo, apparente, a cominciare dal dialogo iniziale tra Menelao e Agamennone, da cui emergono due figure deboli, mediocri e velleitarie, che si scambiano accuse dicendo la verità l’uno dell’altro.
Euripide crea una tensione tra il mito e la realtà, utilizzando il primo come mascheramento della
seconda.
L’abbassamento di tutti i personaggi della tragedia è funzionale all’innalzamento della giovane Ifigenia,
“nata forte”, che decide di sacrificarsi, di accettare e addirittura di volere il destino che è stato scelto per
lei dal padre, in un trionfo di amor fati che solo può riscattare dalla febbre fagocitante che qui prende
tutti i personaggi della tragedia – compresa Clitemnestra – ora lontanissima dalla donna implacabile e
inconciliabile descritta nell’Orestea di Eschilo.
Nell’esaltazione finale nella quale Ifigenia accetta la sua morte, c’è l’assunzione piena del punto di vista
del padre Agamennone e del maschile, ma non per debolezza: accettando e decidendo la sua morte
Ifigenia si individualizza, esce dall’indistinzione diventando ‘qualcosa’ nella morte imminente, un
comandante lei stessa, sollevando allo stesso tempo il padre amato dalla piena responsabilità del
sacrificio.
Una scelta netta della regia è stata quella di recuperare nell’esodo, considerato spurio, l’ipotesi che a
raccontare della sostituzione di Ifigenia con una cerva non fosse un messaggero ma il deus ex machina
della dea Artemide.
Poco importa se la giovane si è davvero salvata all’ultimo istante, il tragico si è già pienamente dispiegato
nella sua natura inemendabile, ed è passato all’interno della coppia, nella sfera borghese, segno di come
la tragedia euripidea si sfaldi durante il suo farsi e annunci quasi il dramma borghese. Il finale, in cui
Agamennone e Clitemnestra, marito e moglie stanno faccia a faccia, spogliati dagli abiti tragici è il
compimento – che la regia ha voluto attuare – di questo slittamento dalla tragedia al dramma.